Sta facendo discutere la nomina di Brian Niccol a nuovo CEO di Starbucks. A dividere, la sua volontà di non trasferirsi a Seattle, dove è presente la sede centrale dell’azienda, per poter rimanere in California, collocando un home office a Newport Beach.
In Italia la notizia è arrivata portando con sé la solita retorica: il lavoro ibrido equivale a non presentarsi mai in ufficio. Non è così. Tanto che lo stesso Niccol – non obbligato a trasferirsi a Seattle – ha comunque l’ovvia responsabilità di recarsi nella sede centrale dell’azienda “per svolgere i suoi doveri”. Come riportato dal Financial Times. Perché dunque tutto questo polverone?
Cosa ci dice il caso Niccol sul lavoro da remoto
La non così sottile differenza si gioca sulla responsabilità correlata al ruolo di Amministratore Delegato. E, di conseguenza, sugli obiettivi che lo stesso ruolo si dà. Nel dibattito in corso, infatti, si rischia di anteporre il luogo in cui si svolge il lavoro a quelli che sono gli obiettivi di Niccol. Se in determinate circostanze si possono ottenere gli stessi risultati da remoto – e perché no, magari da una spiaggia – perché pretendere il presenzialismo a tutti i costi? Molto spesso, non è dove svolgiamo il lavoro a fare la differenza, ma il come lo facciamo.
A dimostrarlo, l’esempio di altri CEO che per scelta o necessità lavorano o hanno lavorato a migliaia di chilometri dalla sede centrale della propria azienda. Niccol, infatti, non è il primo e non sarà l’ultimo.
Sin dalla sua nomina nel 2019, ad esempio, il CEO di Wells Fargo abita a New York, nonostante sia a capo di un’azienda situata a San Francisco. Quello di Barclays, invece, divide il suo tempo – e la sua vita – tra Londra e New York. L’AD di AstraZeneca, ancora, durante la pandemia era in Australia, lavorava di notte per poter mantenere i contatti con i colleghi in Europa e Nord America.
Quest’ultimo caso è stato dettato da costrizioni dovute al Covid, ma mette in luce il punto di cui sopra: nella misura in cui si è in grado di perseguire gli obiettivi di business, non c’è fuso orario che tenga. Così come, per la stessa ragione, può – a determinate condizioni – rendersi necessaria la presenza.
In ogni caso, a ben guardare, gli Amministratori Delegati sono difficilmente seduti alla loro scrivania in ufficio. Per lo meno, non in maniera continuativa. viaggiano, si spostano e lavorano per lo più da computer o da telefono. A prescindere che abbiamo o meno accordi di smart working.
Come è regolato il rapporto di lavoro di un dirigente?
Non è un caso. Per la normativa italiana e la relativa giurisprudenza, ad esempio, il rapporto di lavoro con il dirigente – come può essere un CEO – assume delle caratteristiche molto differenti da quelle dei lavoratori inquadrati nelle categorie operaie o impiegatizie.
Come spiegato da Giorgio Manca, Avvocato Giuslavorista e Partner di DWF Italy, infatti, i dirigenti sono pur sempre lavoratori subordinati, ma il loro rapporto è regolato quasi esclusivamente dalla contrattazione collettiva dei diversi settori di appartenenza. I contratti collettivi di categoria riconoscono come dirigenti i lavoratori che in azienda ricoprono un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale e la cui attività è diretta a promuovere, coordinare e gestire proprio la realizzazione degli obiettivi dell’impresa.
Proprio perché i dirigenti sono maggiormente valutati sul raggiungimento di questi obiettivi (e non sul mero rispetto di uno specifico orario di lavoro), è la stessa normativa, da sempre, a prevedere che tutte le disposizioni “standard” in materia di orario normale di lavoro (durata massima dell’orario, lavoro straordinario, pause, riposo giornaliero, etc) non si applichino al personale con qualifica dirigenziale. In alcuni casi, gli amministratori delegati non hanno nemmeno un rapporto di lavoro subordinato con la società, ma solo un rapporto organico (cioè un mandato dal consiglio di amministrazione). In questo caso, peraltro, parlare di un luogo di lavoro o di un orario di lavoro non avrebbe alcun senso.
La necessità di un leadership team coeso
Appurato che un amministratore delegato è, più di altri, vincolato a obiettivi e risultati, piuttosto che a luoghi e orari, si comprende come un ruolo strategico lo ricoprano i primi riporti.
Una critica spesso avanzata nei confronti del lavoro da remoto di CEO e dirigenti, infatti, è che tale flessibilità sia offerta solamente ai ruoli apicali. Sembra in effetti essere il caso di Starbucks, dal momento che il personale di Seattle si deve recare in ufficio almeno tre giorni alla settimana. Ecco allora, che, secondo i detrattori di questo modello, subentra il rischio di demotivare i dipendenti, dal momento che viene richiesta loro la presenza quando invece il vertice dell’azienda può lavorare dove preferisce.
A ciò, si aggiunge la perplessità relativa alla trasmissione della cultura organizzativa dall’alto verso il basso: com’è possibile – ci si chiede – conoscere l’azienda e, parallelamente, trasmettere la propria vision, senza recarsi in ufficio? Due contestazioni che trovano riscontro solo in un’analisi superficiale della questione.
Al di là del fatto che, come anticipato, lavoro ibrido non significa non presentarsi mai in sede, l’abilità di un CEO si misura anche nella sua capacità di costruire un leadership team coeso, che possa essere un veicolo di trasmissione dall’alto al basso e viceversa. In questo modo, potranno (anche) essere le prime linee a veicolare verso il basso non solo la cultura organizzativa, ma anche la visione dell’amministratore delegato stesso. Riportando verso l’alto le istanze dell’organizzazione.
Nelle grandi aziende, i CEO hanno – come è funzionale che sia – contatti limitati con il personale impiegatizio. Il loro eventuale lavoro da remoto non impatta su motivazione e risultati del personale impiegatizio se sono in grado di formare il leadership team a trasmettere i valori e a responsabilizzare le persone, rendendole altresì in grado di leggere il contesto. Il che significa, tra le altre cose, far comprendere alle persone che obiettivi diversi si raggiungono con risorse e modalità di lavoro differenti.
Non possiamo limitarci a pensare che il ruolo del CEO si limiti a ispirare con i propri comportamenti. La priorità di chi amministra un’azienda è quella di far funzionare l’azienda. E a volte, per riuscirci, è necessario dare priorità al proprio benessere, come il caso Niccol ci insegna. Come è possibile, infatti, far lavorare bene – e fare stare bene – le persone se per primi non si sta bene?
A ciò, si aggiunge la necessità – oggi più che mai – che la leadership non assecondi il presenzialismo, ma il benessere e il raggiungimento dei risultati. A tutti i livelli dell’organizzazione.
Come racconta Simona Alberini, Country Holding Officer and Chairman of the Board, ABB S.p.A. Italy, benessere personale e organizzativo sono strettamente legati a temi quali la cultura aziendale, la leadership e la responsabilità diffusa in un contesto orientato al raggiungimento di obiettivi individuali e di team. Tutto ciò non può che essere basato su un forte allineamento sugli obiettivi, sulla fiducia e sulla solidità della cultura aziendale (oltre che su processi e strumenti che sostengono questo modus operandi). Quello che osserviamo è un apprezzamento diffuso delle soluzioni di smart working con una conseguente stabilità nelle performance individuali e il consolidamento di un ambiente di lavoro efficiente, attrattivo e sostenuto da un profondo senso di responsabilità.
Flessibilità e benessere come leva strategica per attrarre talenti
Come il caso Niccol dimostra, la flessibilità lavorativa e i benefit riguardanti il proprio equilibrio vita-lavoro sono sempre più importanti per attrarre talenti.
Anche nel recruiting, la differenza non la si fa più (solo) sugli elementi “hard” – come retribuzione, inquadramento e possibilità di carriera – ma anche su aspetti “soft” – ossia servizi per il benessere, conciliazione di vita e allineamento valoriale con il purpose dell’azienda.
Ecco allora che il mercato dei talenti assume una complessità crescente: diventa essenziale offrire soluzioni che valorizzano la persona non solo da un punto di vista economico ma anche di vita, sociale e – in definitiva – umano.
L’attrattività di un’azienda, si gioca oggi sulla sua capacità di crescere sostenibilmente investendo in soluzioni che possano attrarre persone che – in quel contesto – percepiscono di poter compiere – almeno per un periodo che ci si auspica sia sufficientemente lungo – il proprio progetto di vita. Progetto che, non a caso, non è più meramente lavorativo, ma abbraccia tutte le dimensioni dell’essere.
Come spiega Maurizia Villa, Managing Director Italy di Korn Ferry, le aziende si devono preparare a formare i talenti con profondo senso di responsabilità nella gestione della flessibilità, instillando il senso della programmazione, degli obiettivi da raggiungere, della qualità del proprio operato, che diventi indice di qualità professionale e di qualità dell’equilibrio personale. Questo nuovo corso di culturizzazione aziendale – continua Villa – implica alta qualità nella formazione dei talenti e la costruzione di un nuovo modello di leadership che richiede tuttavia impegno reciproco delle parti.
In definitiva, la presenza in ufficio non deve essere una questione di principio, ma di necessità. Basta ipocrisia, serve concentrarsi su ciò che realmente conta: i risultati e il benessere dei propri dipendenti. Il lavoro in sede quando serve e da remoto quando possibile, sono la chiave per un futuro delle aziende realmente sostenibile. Tanto da un punto di vista economico, quanto sociale e umano.